Consigli per affrontare il passaggio generazionale 2/5 – Durata del processo

In Italia, circa il 70% delle imprese con un fatturato compreso tra 20 e 50 millioni di euro è a matrice famigliare. Di queste il 25% è guidato da un Leader di età superiore ai 70 anni: un’impresa su quattro sarà chiamata ad affrontare il ricambio generazionale nei prossimi 5 anni.

La durata del processo è spesso lunga, si possono individuare 4 fasi:

1. Formazione dell’erede;

2. Introduzione dell’erede in azienda;

3. L’erede inizia a prendere in mano le deleghe;

4. Allontanamento del fondatore, più o meno graduale.

In questo processo il passaggio generazionale può essere molto delicato e richiedere la consulenza dei professionisti, spesso su singoli aspetti concreti della vita aziendale.


Consigli per affrontare il passaggio generazionale 1/5 – Come può essere il passaggio generazionale dell’impresa

Come può essere il passaggio generazionale dell’impresa:

1. Traumatico: spesso giudiziale, comunque caratterizzato da controversie in famiglia;

2. “Tira e molla” oppure “Stop & go”: incertezze tra fondatore e suoi eredi;

3. Dinamico: il fondatore concede agli eredi la gestione di una parte dell’azienda (stratup, ramo d’azienda, ecc…); poi via via si giungerà alla cessione dell’azienda;

4. Aventiniano o razionale: il fondatore fa due passi indietro e dà il controllo dell’azienda agli eredi.

Il nostro Studio non si occupa direttamente di gestione aziendale, ma presta consulenza ai clienti, anche preventiva, per evitare quanto ai punti 1. e 2. e per favorire le ipotesi 3. e 4.


Parti comuni, la divisione è possibile (di Rosario Dolce)

Il giudice può dividere le parti comuni. Con la sentenza 26041/2019 la Cassazione ha chiarito che l’articolo 1119 del Codice civile va interpretato nel senso che «le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione», a meno che – per la divisione giudiziaria – «la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condòmino» e – per la divisione volontaria – a meno che non sia concluso contratto che riporti il «consenso di tutti i partecipanti al condominio» (quest’ultimo requisito non essendo richiesto per la divisione giudiziaria).
L’articolo 1119 del Codice civile prevede infatti che le parti comuni dell’edificio non siano soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino «e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio». Quest’ultima frase, aggiunta dalla legge 220/2012, sembrerebbe affermare che la divisione delle cose comuni richieda sempre il consenso unanime dei condòmini.
La Cassazione è intervenuta (per la prima volta) chiarendo che esistono due situazioni concrete: anzitutto, per la suprema Corte la divisione delle cose comuni è materia sottratta alle competenze riconosciute dall’assemblea.
I i giudici di legittimità riconoscono poi che il consenso unanime dei condòmini, raccolto in una scrittura privata o atto pubblico (quindi, non all’interno di una delibera) è in grado di determinare la divisione delle parti comuni, anche se il loro uso risultasse poi «incomodo».
Quindi, concludono i giudici, «Non resta dunque, sul piano letterale, che ammettere che – al di là dell’improprio uso della congiunzione “e”, in una funzione essenzialmente disgiuntiva – il legislatore abbia inteso lasciare aperta la possibilità di una divisione giudiziaria, quando “la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condòmino”, aggiungendo il requisito del “consenso” di tutti i partecipanti per sola la divisione volontaria ».
In Quotidiano del diritto

Successioni: divisione degli immobili come una vendita

Corte Cassazione SU 7 ottobre 2019 n. 2502 – Rivoluzione in Cassazione sul tema dell’applicazione, alle divisioni, della normativa prescritta, a pena di nullità, per gli atti traslativi di beni immobili (qual è, ad esempio, la compravendita), in tema di regolarità edilizia dei fabbricati oggetto del contratto. Le Sezioni Unite civili della Suprema corte, con la sentenza n. 25021, depositata ieri, hanno infatti deciso che:
a) la divisione di una comunione ereditaria è un atto tra vivi e non a causa di morte e, pertanto, a esso si applica la medesima normativa dettata per gli atti tra vivi traslativi di beni immobili (sono così superate le decisioni della Cassazione 15133/2001, 630/2003, 2313/2010);
b) alle divisioni di immobili (sia nella comunione ordinaria che nella comunione ereditaria) si applicano sempre le norme sulla regolarità edilizia dei fabbricati oggetto del contratto, a prescindere dalla data della loro costruzione (viene così superata la decisione di Cassazione 14764/2005);
c) la divisione ha efficacia retroattiva, ma non ha natura dichiarativa (sono così superate le decisioni di Cassazione 9659/2000, 7231/2006, 17061/2011, 26351/2017) bensì traslativa e, quindi, lo scioglimento della comunione ereditaria, ove abbia a oggetto fabbricati abusivi, sottostà al medesimo trattamento giuridico della comunione ordinaria (e, pertanto, a essa si applica la stessa disciplina dettata per gli atti traslativi come la compravendita);
d) il provvedimento del giudice che dispone la divisione non può essere adottato (sia nella procedura esecutiva individuale che nella procedura esecutiva concorsuale) se non vi è il rispetto della normativa prescritta, a pena di nullità, per gli atti traslativi di beni immobili in tema di regolarità edilizia dei fabbricati oggetto di divisione (in questo caso vengono confermate le decisioni della Cassazione 15133/2001 e 630/2003).
La questione che le Sezioni Unite della Suprema corte hanno inteso risolvere, innovando la gran parte della precedente giurisprudenza in materia, è correlata anzitutto al fatto che la normativa applicabile (articolata a seconda della data in cui l’edificio è stato costruito) talvolta menziona lo scioglimento di comunioni e talvolta non lo menziona: in quest’ultimo caso, diventava dubbio (risolto, dunque, in senso positivo dai giudici della Cassazione) se la divisione rientrasse o meno nel novero degli atti per i quali occorre rispettare (a pena di nullità) la normativa inerente la regolarità edilizia dei fabbricati.
Inoltre, vi era da dipanare la questione se la divisione di una comunione ereditaria derivasse da questa sua origine la natura di atto a causa di morte (e, come tale, sottratto all’applicazione della predetta normativa in tema di regolarità edilizia dei fabbricati).
Sul punto, la Corte dicassazione afferma che una tale «derivazione» non è plausibile in quanto l’atto mortis causa è quello per il quale la morte di una persona fisica rappresenta il titolo che provoca l’effetto giuridico, mentre la divisione è chiaramente un atto “tra vivi”, dipendendo la sua effettuazione dalla volontà dei condividenti.
di Angelo Busani Quotidiano del diritto

L’amministratore è anche dipendente: l’Inps fissa tre condizioni

L’amministratore di una società di capitali può essere assunto dalla stessa azienda con contratto di lavoro subordinato a tre condizioni: – il potere deliberativo diretto a formare la volontà dell’ente è affidato a un organo collegiale o a un altro organo espressione della volontà dell’ente;
– l’organo sociale è assoggettato al potere direttivo, organizzativo e disciplinare dell’organo collettivo o a quello di altri componenti dell’organo sociale;
– la persona in questione svolge mansioni estranee al rapporto sociale o attività non comprese nel potere di gestione che discende dalla carica ricoperta o dalle deleghe che gli sono state conferite.
In linea con la Cassazione Sono queste le tre situazioni che per l’Inps (messaggio 3359 del 17 settembre 2019) consentono il cumulo tra le cariche sociali e lavoro subordinato. Con il recente messaggio, l’Inps si allinea alla giurisprudenza della Cassazione che, in linea di massima, non esclude una compatibilità tra attività di gestione e lavoro subordinato. La Corte ha evidenziato più volte che ricoprire la carica di amministratore di una persona giuridica non è di per sé ostativo alla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra l’amministratore e la società gestita.
La compatibilità tra le due figure (amministratore e dipendente) è consentita quando si possono ravvisare gli indici della subordinazione, ossia l’assoggettamento, nonostante la carica sociale, al potere direttivo, organizzativo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione dell’ente (Cassazione, 18476/2014 e 24972/2013; meno recentemente, Sezioni unite 10680/1994). Partendo da questi presupposti,l’Inps afferma che la carica di presidente del Cda di per sé non è incompatibile con il lavoro subordinato purché l’amministratore/dipendente sia soggetto alle direttive e alle decisioni dell’organo collegiale. La compatibilità sussiste anche quando viene conferito al presidente il potere di rappresentanza, perché questo non si estende automaticamente a poteri deliberativi.
L’incompatibilità È del tutto incompatibile con il lavoro dipendente, invece, la carica di amministratore unico. Quest’ultimo, infatti, in presenza anche di un rapporto di lavoro subordinato con la società dal medesimo gestita, di fatto, diviene datore di lavoro di sé stesso.
È da valutare caso per caso, invece, la posizione dell’amministratore delegato. La portata della delega conferita all’amministratore sarà rilevante ai fini dell’ammissibilità o meno della coesistenza tra carica sociale e lavoro dipendente. Se l’amministratore – prosegue l’Inps – ha una delega generale che implica la gestione globale della società senza necessità di interpellare il consiglio di amministrazione, dovrà essere esclusa la compatibilità. Diversamente, l’attribuzione all’amministratore del solo potere di rappresentanza o di specifiche deleghe non è ostativo all’instaurazione con lo stesso soggetto di un rapporto di lavoro subordinato.
Per valutare la compatibilità dovranno essere esaminati, caso per caso, i rapporti che intercorrono tra il soggetto delegato e il Cda, la pluralità e il numero degli amministratori, la facoltà di agire congiuntamente o disgiuntamente e gli elementi che caratterizzano la subordinazione.
di Daniele Colombo Quotidiano del Diritto